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20161120 MB miniera3luciBolivia, Potosì, 4200 metri sopra il livello del mare. Un minatore si sveglia per andare al lavoro. Lavora tutti i giorni nella miniera di Cerro Rico, che è il nome della montagna nelle cui viscere deve scavare per estrarre oro, argento, rame, stagno. L’argento è lo stesso che per 300 anni ha reso ricca la Spagna colonialista: “vale un Potosì” si dice nel Don Quichotte per dire “vale una fortuna”, ma il prestigio della Storia al minatore interessa poco. Sa che la giornata lavorativa sarà dura e lunga, forse più di dodici ore. Sa anche che per far fronte alla fatica avrà bisogno di un aiuto: sigarette, foglie di coca e alcool a 95°. Questo è ciò che porta con sé uscendo di casa. Una volta arrivato entra nella miniera. Il buio è totale e può affidarsi solo alla torcia che ha sopra al casco.

A 4200 metri l’aria è rarefatta, e nei tunnel ancora di più: polvere e gas solforati impregnano ciò che si respira. A quell’altitudine un paio di passi sotto sforzo, mandano i turisti in tachicardia. Però il minatore è un indio e sa che la sua etnia è predisposta a vivere a quelle altitudini, perchè lì vive dai tempi dell’Impero Inca. Solo lui può lavorare in quella miniera. Ancora una volta, questo è un prestigio che gli interessa poco. Prima di scendere nella bocca dell’inferno entra in un piccolo tunnel alla destra dell’ingresso principale. In fondo, in una nicchia, c’è una statua che raffigura un diavolo, che lui chiama “El Tìo”. Il minatore sa che dovrà fargli un’offerta: sigarette, foglie di coca e alcool a 95°. Le stesse che usa lui durante la giornata. Si accende due sigarette: una la mette in bocca al Tìo e una la fuma lui. Prende due pizzichi di coca: uno lo sparge sul Tìo e l’altro lo mastica. Apre la bottiglia di alcool puro: una parte la versa a terra e una la beve. La parte versata è per la “Pachamama”, la Madre Terra. La Pachamama è la sposa del diavolo. Il minatore sa di essere cristiano e ricorda che domenica è andato a messa con moglie e figli. Una volta entrato nella miniera si sente però anche un po’ pagano: sa che deve offrire un tributo al Tìo per avere salva la vita e alla Madre Terra perchè lo aiuti a trovare i minerali. In questa sorta di bipensiero religioso il minatore sa che Dio regna nei cieli, ma che dentro le viscere della terra il suo destino è in mano al diavolo. La statua del Tìo è muscolosa, perchè il lavoro in miniera è prettamente manuale. Nella sua iconografia, è anche dotata di un pene enorme, a rappresentare la fertilità e la virilità del minatore, che ha solitamente dagli otto ai dodici figli. La statua che ha davanti ha più di trent’anni. Sotto di essa ce n’è un’altra che raffigura un conquistador spagnolo. Quella ne ha quasi cento. Anche lui è un semidio, perchè quando gli spagnoli arrivarono in Sudamerica gli indios credevano che fossero dèi per la capigliatura bionda e le armature scintillanti.
Poi arriviamo noi, i turisti. Prima di recarci alla miniera, dobbiamo passare a comprare i doni da offrire ai minatori: sigarette, foglie di coca e alcool a 95°.  La santa trinità che tiene in vita. Ci è stato detto che i minatori che avremmo incontrato dentro i tunnel sarebbero stati contenti di raccontarci la loro condizione lavorativa. Ci è anche stato detto che sono molto orgogliosi di quello che fanno. Prima di arrivare alla miniera, passiamo per il paese ai piedi della montagna. C’è un gran caos  e la guida ci dice che è il giorno delle elezioni: verrà deciso il nuovo presidente della cooperativa.  In Bolivia i minatori sono sempre stati la classe sociale più strutturata. Rappresentando le miniere gran parte dell’economia del Paese, la loro nazionalizzazione o privatizzazione nel corso degli anni è sempre stata il termometro dello sfruttamento della Bolivia da parte di investitori stranieri. Negli anni sessanta, ai tempi della guerriglia di Che Guevara contro il regime del generale Barrientos, quella dei minatori fu l’unica fascia civile ad appoggiare la rivoluzione, nell’indecisione generale del Partito Comunista Boliviano. Un pugno di loro, capitanato da un rappresentante di nome Moisés Guevara, entrò a far parte dell’Esercito di liberazione nazionale.
Quella dei minatori fu anche la classe sociale più colpita dalla repressione. In quegli anni capitò che la giunta militare gli ridusse gli stipendi di oltre il quaranta per cento. La Federazione sindacale dei lavoratori minerari della Bolivia (FSTMB) si riunì e i minatori di San Juan decisero di donare alla guerriglia un giorno di salario e una partita di medicine. Quando venne a saperlo, l’esercito attaccò gli accampamenti dei minatori lasciando nella miniera 87 morti. L’accaduto è noto come “il massacro di San Juan”. In quegli anni Barrientos portò avanti una propaganda di forte nazionalismo con l’obiettivo di far risultare l’esercito ribelle di Che Guevara, composto soprattutto da cubani, come un esercito di invasori. Questo provocò le delazioni da parte della popolazione e il mancato appoggio della base contadina. Con gli aiuti della C.I.A. Barrientos riuscì ad annientare la guerriglia. Moisés Guevara e gli altri minatori morirono tutti sotto i colpi dell’esercito Boliviano e degli agenti speciali statunitensi.
Quando arriviamo noi turisti, quasi cinquant’anni dopo, l’eco di quei fatti risuona solo per chi legge i libri di Storia.  Oggi i minatori della Bolivia guadagnano buone cifre, l’equivalente di circa 1500 dollari in condizioni normali e fino a 5000 se trovano qualche metallo prezioso. Questo è il prezzo di un lavoro disumano e, molto spesso, della vita. La guida ci dice che si sono fatti grandi passi avanti rispetto al passato: oggi a Cerro Rico muoiono solo due o tre minatori l’anno. Non muoiono per ragioni di sicurezza, ma perchè per far fronte alla fatica hanno bisogno di bere così tanto alcool da lavorare in stato di incoscienza. A quel punto cadere in qualche precipizio in tunnel senza illuminazione, con un fondale immerso nell’acqua dove scorrono binari e compaiono ostacoli improvvisi è cosa di un attimo. E il sottoscritto, che con la sua tuta da turista inciampa e sbatte la testa contro le rocce per otto volte consecutive per provare a scattare un paio di foto (ringraziando il casco), può facilmente immaginare che lì, per chi ci lavora, ancora si muore.

Matteo Busato #qzone
Foto Matteo Busato

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