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20190114 MB Soldati Iran

Iran, Iran, Iran
chun-o-marg-o-osjan.

(Iran, Iran, Iran
sei sangue, morte e rivolta).

 

La nostra storia inizia dove inizia la Storia. I persiani conquistarono i Medi e ne ereditarono la cultura, che avevano conquistato gli Assiri e ne avevano ereditato la cultura. Poco prima i persiani erano un popolo nomade che viveva in tendopoli con tetti in argilla nella regione dove oggi sorge una delle città più turistiche dell’Iran, Shiraz. Scherzo del destino, è lì che è cominciato il mio viaggio. Ciro il Grande entrò nella capitale dei Medi nel VI° secolo a.C., ma non voleva distruggere né saccheggiare: voleva imparare. La contaminazione, parola che oggi fa paura, era compiuta: i persiani, che fino a un secolo prima non sapevano né leggere né scrivere, si trovarono a essere largamente più sofisticati dei greci un secolo prima dei greci, che noi reputiamo i nostri padri. A Dario I toccarono altre conquiste e il compito di fondare il primo impero universale che l’umanità abbia conosciuto. Anche a Dario spettò quel titolo, “Il Grande”, dato dai greci. Persiani e greci: storia di rivalità e segreta ammirazione. Dario fondò Persepoli e oggi i miei pensieri vanno a quel pomeriggio di sole in cui ho potuto passeggiare tra le rovine del suo immenso palazzo. Bassorilievi, tombe monumentali scavate nella roccia, colonne. Fondazione: 520 a.C. di nuovo: più civilizzati dei greci prima dei greci. L’impero di Dario andava da est in Pakistan ad ovest fino alla Tracia, odierna Turchia. Come far funzionare una macchina così enorme? A colpi di genio. Un conquistatore poco lungimirante avrebbe imposto la sua lingua, il persiano antico. Dato che i persiani rilevarono il sistema dei Medi, dove si parlava aramaico, Dario scelse l’aramaico per diplomatici e burocrati. Lo storico Erodoto racconta che all’epoca per fare duemila chilometri un cavallo impiegava sette giorni. Come fare per le comunicazioni? Dario capì che la luce viaggia più veloce dei cavalli e fece innalzare delle torri per scambiare segnali luminosi in una sorta di alfabeto Morse. Se nella regione più rurale dell’impero avveniva una rivolta, l’amministrazione centrale lo sapeva immediatamente. Dopo aver conquistato la Persia, Alessandro Magno rimase affascinato da questo sistema e lo volle per sé. Il genio che riconosce il genio. Quelle torri rimarranno attive fino al XIX secolo, quando verrà introdotto il telegrafo.

Dopo gli Achemenidi i Sasanidi, dopo i Sasanidi la conquista islamica. In mezzo anche una scorribanda dei Mongoli. In un Paese che è stato invaso per secoli, viene da chiedersi come è potuta sopravvivere una cultura che oggi può essere definita “iraniana”. O meglio, persiana, perché il termine Iran venne introdotto solo nel 1935. Eppure è andata così e quando chiedo alla mia guida come è potuto accadere, mi risponde “noi dagli altri popoli abbiamo sempre preso il meglio e gli abbiamo lasciato il peggio”. Come se fosse la cosa più naturale del mondo.

Dopo il mio viaggio mi chiedono oggi quale sia la situazione in Iran. Non so cosa dire, non so cosa scrivere. Per me la situazione è estremamente chiara, e dire che 2 + 2 fa quattro è sempre noioso. Sembra ci fu la CIA dietro al colpo di stato del 1953 che destituì il primo ministro Muhammad Mossadeq e mise sul trono lo Scià Mohammad Reza Pahlavi. Storia già sentita? L’avevo detto. Con Reza Pahlavi si instaurò una monarchia filo-occidentale sia dal punto di vista delle relazioni economiche che da quello sociale e culturale. Si scrive monarchia ma si legge dittatura: polizia politica, torture, sparizioni e tutto il pacchetto. La polizia politica era la SAVAK. Sembra che un giorno a una fermata dell’autobus a Teheran arrivò un uomo anziano malato di cuore. Il vecchio sottolineò che il caldo quel pomeriggio era particolarmente “opprimente”. Per sua sfortuna seduto vicino a lui c’era una agente della SAVAK, che lo arrestò. Nessuno lo rivedrà più. L’ossessione della SAVAK e dello Scià erano arrivate al punto che non era più possibile pronunciare in pubblico parole come “oppressione”, “oscurità”, “collasso”, perché potevano rappresentare un’allusione segreta al regime. Questa situazione divenne per i cittadini una vera psicosi. Si racconta che in quegli anni la gente se ne stava seduta nei bazar a bere il thè in solitaria, cercando di non rivolgere la parola a nessuno per paura che fosse un agente della SAVAK.

Sotto i Pahlavi furono vietati i costumi islamici e introdotto il divieto per le donne di portare lo chador in pubblico. Il risultato fu che molte donne rimanevano chiuse in casa per pudicizia. Il dialogo si rivolgeva naturalmente agli Stati Uniti, alla Gran Bretagna, agli altri paesi europei golosi del petrolio iraniano. La Anglo-Iranian Oil Company era la quintessenza del colonialismo economico. Il petrolio in Iran viene considerato un patrimonio nazionale. “Il petrolio è il nostro sangue” dice la gente. Quando il nostro autobus si ferma per fare rifornimento, chiedo quanto costa la benzina in Iran. Un tempo veniva pagato un sussidio di 5 centesimi di dollaro al litro come pro forma, poi il prezzo è stato portato a 40 centesimi e per questo la gente è scesa in piazza. Oggi è rimasto quel prezzo.

L’avvenimento più grottesco sotto la dinastia Pahlavi si ebbe quando lo Scià si accorse che il prezzo del petrolio era quadruplicato. Di lì in avanti sarebbero entrati nelle casse dello Stato 20 miliardi di dollari l’anno. Da qui il folle sogno: quello della Grande Civiltà. Il tempo dell’Iran rurale era finito: l’Iran doveva diventare la terza potenza mondiale. Lo Scià era convinto che in dieci anni in Iran ci sarebbe stato lo stesso tenore di vita che in Europa. Cominciò a comprare ogni sorta di bene dall’estero con l’intento di far costruire nuove strade, centrali nucleari, fabbriche di ogni tipo. Il fatto surreale fu che una volta comprate le merci lo Scià si accorse che l’Iran non aveva porti attrezzati per ospitare le navi da carico, non aveva strade per i grandi trasporti, né infrastrutture per la produzione industriale. Il risultato fu che miliardi di dollari di beni venivano lasciati a marcire sotto la sabbia del deserto. Non c’era tantomeno il personale tecnico per far partire l’industrializzazione. Per avere quello serve far studiare un’intera generazione, ma gli studenti hanno il difetto di pensare e sono potenziali dissidenti, così lo Scià li aveva mandati volentieri all’estero. Questa cosa degli iraniani all’estero sembra una tendenza che prosegue ancora oggi. Il primo io lo incontrai a Budapest qualche anno fa. Era sera tardi e cercavo un pasto per cena, ma tutti i ristoranti della città sembravano chiusi. Capitai in una catena di ristoranti di carne, dove il gestore era iraniano ed anche se aveva chiuso la cucina mi sfamò con un piatto di pollo. Notai il suo inglese perfetto e fu per me la prima occasione di parlare dell’Iran. Mi rendo conto ora che fu piantato lì il seme che portò a questo viaggio.

A quell’epoca poco importava allo Scià se non c’era il personale tecnico: con i soldi si poteva acquistare tutto e fu fatto venire personale dall’estero. Naturalmente metà della spesa dei proventi del petrolio fu dedicata all’esercito, con lo Scià che sceglieva i più avanzati armamenti come se sfogliasse un catalogo IKEA: mille elicotteri dagli Stati Uniti, duemila carri armati dalla Gran Bretagna, diecimila cannoni dalla Germania. Anche per far funzionare gli armamenti serviva personale specializzato, quindi furono fatti venire dei marines dagli Stati Uniti e gli fu concessa l’immunità. Sostanzialmente in Iran potevano fare ciò che volevano impunemente. Si dice che una delle occupazioni preferite dello Scià in quel periodo fosse la lettura di riviste specializzate di armi. Se ne stava spesso nella sua villa a St. Moritz a ricevere diplomatici mandati dai governi occidentali che erano interessati ad investire nel suo Paese. Nel frattempo giovani attivisti del Tudeh, il partito comunista, cercavano di far capire al mondo che nelle provincie più disperse dell’Iran si moriva ancora di fame.

In breve tempo arrivarono gli investimenti stranieri insieme a gente di ogni genere: speculatori, commercianti di ogni settore, specialisti. Fiorivano i locali, le discoteche, l’industria cinematografica, in una sorta di pornografia culturale, Teheran come Los Angeles: 8 milioni di abitanti, traffico congestionato, inquinamento alle stelle, insegne di attrici bionde senza veli ovunque. Di queste oggi, dopo la rivoluzione, sono rimaste solo il traffico e l’inquinamento: ogni tanto a Teheran partono gli allarmi smog e la gente sta chiusa in casa per giorni. Noi ci mettiamo due ore per fare 3 km in autobus. Per il resto, prima di partire mi dicono che alla dogana dell’aeroporto non posso portare libri con figure femminili senza velo in copertina perché considerate pornografia.

In tutto questo lo Scià stava firmando la sua condanna e non lo sapeva. Per decenni il leitmotiv era stato sempre lo stesso: un monarca veniva imposto da potenze straniere, da Qom i mullà cominciano a sbraitare contro di lui e a Teheran comincia a sentirsi odore di rivoluzione. Da Qom vengono le rivoluzioni. È la città sede dell’intellighenzia mussulmana dove migliaia di studiosi arrivano per studiare il Corano. Lì le nostre compagne di viaggio devono indossare lo chador completo e qualcuno ha da ridire anche mentre si scattano una foto. Una foto di gruppo di otto donne con un cellulare: evidentemente sa troppo di emancipazione.

Nel 1979 il mullà che guidò il popolo alla rivoluzione fu Ruhollah Khomeini, sicuramente la personalità più importante dell’Iran. Per intenderci, è lui che trovate sulle banconote. Se visitate una moschea noterete che è molto diversa da una chiesa cristiana, dove è tutto buio e bisogna stare in silenzio. Al centro di una moschea c’è quasi sempre un grande giardino dove si può passeggiare al fresco, discutere, riposare. Inutile dire che in Iran ce ne sono di splendide. L’iraniano medio che nel quotidiano veniva assorbito dalla vita caotica della Grande Civiltà di Reza Pahlavi e umiliato dalla presenza di tecnici, burocrati, militari stranieri più esperti di lui, nella moschea ritrovava equità e dignità. Era quasi naturale che la cospirazione per far cadere il regime si creasse all’ombra delle moschee e attorno all’Islam. Un giorno del gennaio 1979 avvenne semplicemente che la coscienza della gente era formata e la folla scese in piazza a Teheran contro le forze dell’ordine. Fu un bagno di sangue, ma alla fine vinsero i rivoltosi. Lo Scià fuggì all’estero e Khomeini fu fatto rientrare in Iran da Parigi, da dove aveva trasmesso i suoi messaggi di propaganda in quegli anni.

Dicono che Khomeini avesse grande carisma e aggressività politica. Subito dopo la rivoluzione avvenne una crisi in cui degli studenti radicali invasero l’ambasciata degli Stati Uniti e presero in ostaggio il personale. Dopo qualche tentennamento, Khomeini appoggiò quell’azione inasprendo la propaganda antiimperialista e gettando l’Iran in quell’isolazionismo economico e diplomatico in cui versa ancora oggi.

L’Iran è un Paese a maggioranza sciita. Gli sciiti sono la minoranza del mondo musulmano e ne rappresentano solo un decimo. Si dividono dai sunniti perché loro credevano che il vero discendente di Maometto fosse ‘Ali, che i sunniti assassinarono. Credono anche in 12 capi religiosi, gli imam, l’ultimo dei quali morì nel IX secolo. Gli sciiti credono che l’ultimo imam non sia morto, ma attenda in una grotta e che quando tornerà porterà sulla Terra il regno della giustizia. Lo chiamano l’”imam nascosto” o “l’Atteso”. Era così forte la personalità di Khomeini che alcuni fanatici credevano fosse lui il dodicesimo imam.

Le rivoluzioni sono tutte uguali: dopo l’epurazione del sistema precedente si passa alla conservazione dello status quo. Cambiare tutto perché nulla cambi. Khomeini godeva di grande popolarità e l’accesso ai poteri centrali dello Stato gli venne praticamente offerto su un piatto d’argento. Un po’ ci mise anche del suo, eliminando tutta l’opposizione: tra chi aveva fatto la rivoluzione c’erano moderati, laici, democratici, i comunisti del Tudeh. Verranno tutti tolti di mezzo.

Rimaneva il problema di che ordinamento dare alla neonata repubblica iraniana e come chiamarla. “Repubblica Islamica Democratica” o “Repubblica Popolare Democratica”? Intervenne Khomeini: non era opportuno che al termine “Islam” venisse associato qualunque aggettivo qualificativo. Si optò per “Repubblica Islamica dell’Iran”, il nome che c’è ancora oggi. Poi il referendum a sancirne la legittimità: vinse con il 98.2% dei voti. Secondo gli osservatori la domanda era capziosa: “Volete una repubblica islamica o una monarchia?”. Le alternative non erano contemplate.

La rivoluzione era ancora giovane quando scoppiò la guerra con l’Iraq. Il pretesto per l’invasione nel 1980 fu la rivendicazione da parte di Saddam Hussein di alcuni territori nel nord-ovest dell’Iran per una vecchia questione che si perdeva nei secoli. Saddam era sunnita e temeva che la presa del potere degli sciiti in Iran provocasse una loro rivolta anche in Iraq. Gli Stati Uniti avevano perso il petrolio iraniano, che era stato nazionalizzato. Mettete un po’ le due cose insieme. Gli iracheni ricevettero aiuti dai paesi arabi e dagli Stati Uniti, che rimossero anche i dazi all’Iraq per favorire il mercato delle armi. Furono usate armi chimiche che sembra vennero fabbricate con componenti provenienti da fabbriche europee e americane. Dalla sua parte l’Iran aveva l’esercito messo in piedi da Reza Pahlavi, ma gli specialisti stranieri erano stati cacciati dopo la rivoluzione. Il risvolto tragicomico fu che era facile vedere qualche jet di ultima generazione fermo nel suo hangar perché nessuno sapeva farlo decollare. Il conflitto che aveva devastato villaggi e provocato centinaia di migliaia di vittime si risolverà nel 1988 in un nulla di fatto, con i pochi territori conquistati da Saddam che verranno restituiti all’Iran in cambio della sua neutralità nell’invasione irachena del Kuwait.

Quando un Paese è in guerra tutti i suoi sforzi si concentrano su un solo obiettivo: vincere. La gente non pensa ad altro e in un amen sono passati dieci anni. Oggi l’Iran è a tutti gli effetti una teocrazia musulmana. Il Presidente della Repubblica, il Primo Ministro e il parlamento hanno poteri limitati, perché sopra di loro c’è l’ayatollah che verifica che le leggi siano conformi all’Islam. La religione che diventa politica. L’ayatollah viene eletto da un consiglio di 12 saggi di Qom. Morto Khomeini nel 1989, venne eletto Khamenei. Cambia una vocale e cambia poco anche la sostanza. In Iran le altre religioni monoteiste sono tollerate e sono presenti minoranze cristiane, ebree, zoroastriane. Ognuno di loro ha dei rappresentanti in parlamento. In parlamento ci sono anche le donne. Lo zoroastrismo è la religione che discende dal profeta Zarathustra ed è rimasta dall’antica stirpe dei Sasanidi. Oggi in Iran ci sono circa 60 mila zoroastriani. Non ricordo se è stato in un giardino patrimonio UNESCO a Yazd o in un tempio, ma avevo visto una tavola su cui era riportato l’atteggiamento zoroastriano da tenere di fronte a un problema: “rifletti e affrontalo con la tua testa secondo quello che sai. Non c’è una via prestabilita”. Un richiamo al logos così liberale che è una boccata d’aria fresca di fronte al dogmatismo delle altre religioni monoteiste.

In un mausoleo incontriamo un volontario che ci spiega un po’ di cose sull’Iran. Credo sia l’equivalente di chi da noi fa catechismo e dunque mi aspetto una versione parziale. Gli chiedo se è vero che gli iraniani pensavano che Khomeini fosse il dodicesimo imam. La risposta durerà un’ora. A quanto pare alla base di una repubblica islamica c’è l’assunto che nel Corano è contenuta la formula per la felicità di ogni individuo e per la società perfetta. Al di fuori regnano il caos e le disuguaglianze. La stessa formula per tutti: roba da far tremare i polsi alla psicologia moderna. Ci congediamo e vengo a sapere che il volontario è ingegnere meccanico. Il suo inglese è perfetto. Ci offre thè e biscotti e ci regala una cartolina. Che strani questi iraniani.

È una notte fredda a Esfahan e c’è la nebbia, ma la piazza più bella del mondo, Naqsh-e jahān, sembra non curarsene e si mostra in tutto il suo splendore. Questa bellezza si trasformerà per il turista in una specie di fitta quando tornerà a casa, ma lui ancora non lo sa. Per la precisione è l’ultima notte dell’anno o almeno lo è per noi, perché il capodanno persiano è il 21 marzo con l’equinozio di primavera, data in cui si celebra la rinascita e cosa che ha uno squisito sapore di paganesimo. Nella piazza ci siamo solo noi. A dire il vero non siamo totalmente soli: sotto l’arcata della moschea ci sono due giovani iraniani che cantano con la mano sul cuore. A un occidentale potrebbe suonare come un canto religioso preso dal Corano. Quando finiscono gli chiedo come mai stessero cantando. Mi rispondono che quella sera si sentivano tristi e hanno deciso di uscire di casa. Che la ragazza non c’è. Che il lavoro è sottopagato. Che Trump ha aumentato i dazi e il cellulare che ieri costava 100 dollari oggi ne costa 300. Che non possono andare all’estero. Loro vanno sotto gli archi e cantano. Era una vecchia canzone iraniana che parlava della notte, della pioggia, della bellezza della città. Un canto laico. Parliamo fino alle tre di mattina nella piazza deserta e vengo a sapere che uno è ingegnere chimico e l’altro ingegnere metallurgico. Il secondo lavora in un’azienda che collabora con una ditta di Udine. Che strani questi iraniani.

In Iran si guida molto male. Le auto non si fermano sulle strisce e anche attraversare con il semaforo verde è pericoloso. Non parliamo di sensi unici o divieti d’accesso. Quando chiedo perché guidano così, mi viene detto che agli iraniani non piacciono molto le regole. Mi sono interrogato a lungo sul perché del mio viaggio in Iran e in quel momento mi sono accorto di essere finito ancora una volta tra le braccia di un popolo che ha dentro di sé la fiamma della ribellione. Il 60% della popolazione iraniana è compreso tra i 20 e i 39 anni. Quasi tutti sono laureati. I film dei registi iraniani proibiti in Patria vengono premiati nelle più importanti competizioni all’estero. In un paese in cui già il 90% della popolazione era praticante, non c’era davvero bisogno di instaurare una dittatura islamica. Oggi quasi tutti i giovani non praticano o odiano apertamente l’Islam. Le barbe canute di Qom non sanno che dietro di loro c’è una generazione pronta a rilevarli. Macché petrolio, la vera risorsa di questo Paese sono i giovani.

Cosa posso dire io dell’Iran di oggi? Tutte queste vicende sono un’eco nei libri di Storia o riguardano solo i locali. Nulla di tutto ciò disturberà la vostra visita e questo viaggio è stata l’occasione per aggiornare la mia classifica personale del popolo più accogliente che abbia mai incontrato. Capita che basti una carnagione un po’ più chiara o un capello biondo per provocare in una madre con bambino la timida richiesta di fare una foto con suo figlio. All’europeo, abituato a fregare e a farsi fregare, viene subito in mente “vorrà dei soldi? Vuole vendermi qualcosa?” ma rimarrà sorpreso vedendola congedarsi con un sorriso spiazzante e un “benvenuti”. Capita che un tassista ti inviti il giorno dopo a casa sua a prendere thè e biscotti e che al momento di pagare la corsa ti dica “dammi quello che vuoi”. Capita che io parta con l’idea di visitare quella che per noi occidentali è l’alterità assoluta, un Paese musulmano, e che oggi mi ritrovi a chiamare gli iraniani “fratelli”.

 

Matteo Busato, 13/01/2019 #qzone.it
Foto di Matteo Busato

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