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20180218 MB ColombiaA chi volesse informarsi per un viaggio in Colombia, capiterebbe di sentire più o meno sempre la stessa frase. Che la Colombia non è più il Paese pericoloso di una volta, che si è riaperta al turismo, che l’economia colombiana sta finalmente ripartendo. Che i colombiani sono pronti ad accogliervi a braccia aperte, eccetera eccetera. Tutto questo grazie all’accordo di pace firmato tra il Governo e le FARC (Fuerzas Armadas  Revolucionarias de Colombia), la guerriglia marxista più longeva al mondo, che è valso al Presidente Juan Manuel Santos la consegna del premio Nobel per la Pace nel 2016. Le FARC nacquero all’inizio degli anni sessanta dopo il decennio della storia colombiana denominato La Violencia, scatenato nel 1948 dall’assassinio del candidato del Partito Liberale Jorge Eliecèr Gaitàn.

La Violencia iniziò con il cosiddetto Bogotazo, un periodo di proteste e repressioni che distrusse il centro di Bogotà e causò migliaia di vittime tra la popolazione manifestante. Durante quel decennio, tra il 1948 ed il 1958, le stime parlano di 200.000 vittime tra sostenitori del Partito Liberale e del Partito Conservatore. Fu dal rifiuto dei contadini a deporre le armi dopo quegli eventi che si formò il primo nucleo delle FARC.

A dire il vero già a metà degli anni ottanta si era raggiunta una pace provvisoria, con le FARC che si riciclarono come partito politico, come vorrebbero fare oggi. Allora il risultato fu che migliaia di militanti furono assassinati dagli squadroni del governo e per ripicca le FARC cominciarono a effettuare sequestri a scopo di estorsione, un’abitudine che avrebbero mantenuto fino all’ultimo. Per più di cinquant’anni in vaste aree del Paese si è quindi consumato lo scontro tra guerriglia ed Esercito Colombiano, con territori che cadevano ora in mano ai primi, ora ai secondi. Tra la popolazione c’è chi racconta dei peggiori crimini commessi dai guerriglieri, che erano scesi in campo contro lo sfruttamento latifondista dei braccianti e le repressioni del governo, ma che hanno macchiato il concetto di rivoluzione e tradito il loro popolo. Si parla di rapimenti e omicidi sia di politici che di gente comune, oltre alla sempiterna collusione colombiana con il narcotraffico.

Altri invece raccontano che sotto la guerriglia si stava meglio e che erano i militari a perseguitare gli oppositori politici e chiunque simpatizzasse per le FARC, in aggiunta a certi “vizietti” nei confronti delle ragazzine. A Cartagena, in un caffè che funge da ambientazione in L’amore ai tempi del colera di Gabriel García Márquez, la mia guida mi racconta un aneddoto sulla guerra. - "Se un comandante della guerriglia arriva nella tenuta di un contadino, gli dice che con sé ha una colonna di cento uomini e che deve ammazzare un maiale per sfamarli, se vuole salva la vita. Il giorno dopo arriva un tenente dell’esercito e gli fa presente che con sé ha un intero plotone e che deve ammazzare un maiale per sfamare i soldati, se vuole salva la vita. Il giorno dopo ancora torna da lui il comandante della guerriglia, che gli dice: - L’altro giorno sei stato generoso con noi, ma ieri hai aiutato il nostro nemico. Adesso dobbiamo ammazzare te e la tua famiglia - ”. In questo tira e molla tra esercito e guerriglia, chi stava nel mezzo ha pagato il prezzo più caro.

Prima di partire per la Colombia noto con disappunto che nell’itinerario previsto non è inclusa la visita allo splendido Caño Cristales, il cosiddetto fiume arcobaleno, così chiamato per la colorazione conferitagli da diversi tipi di alghe. Il fiume è situato nella regione de La Macarena, a circa 200 km a sud di Bogotà. Mentre sono in viaggio scopro che la regione è ancora teatro di scontri e che lì è stata trovata la più grande fossa comune dell’America Latina, con oltre 2000 corpi non identificati. Si dice siano di civili vittime dell’esercito colombiano.

Agli inizi degli anni 2000, a complicare ulteriormente la situazione ci ha pensato l’ex presidente conservatore Alvaro Uribe. Deciso a spazzare via le FARC a qualunque costo e forte del Plan Colombia, un patto stretto nel 1999 con gli Stati Uniti che prevedeva finanziamenti per la lotta contro la guerriglia, sembra ci sia stato lui a capo dell’istituzione di nuclei paramilitari di autodifesa che avevano l’obbiettivo di proteggere dai guerriglieri i possedimenti privati nell’interesse dei proprietari terrieri. Una cosa molto simile agli squadroni fascisti dei nostri anni venti, che ammazzavano operai e contadini scioperanti finanziati dai grandi industriali. Tanto per cambiare, i paracos si sono legati al narcotraffico e si sono resi responsabili di massacri nei confronti di civili sospettati di avere legami con la guerriglia, a volte coordinandosi con l’esercito. Si dice che uno dei modi con cui spargessero terrore fosse uccidere persone in pubblico con una motosega. Perso il controllo della situazione, il Governo si è dovuto mettere a trattare anche con loro e da allora la situazione nella foresta si è trasformata in uno stallo alla messicana tra guerriglia, esercito e paramilitari.

Del 2006 il fatto più grave: per dimostrare che i soldi del Plan Colombia non venivano sprecati, furono garantite delle ricompense in denaro a qualunque soldato o paramilitare uccidesse dei guerriglieri. Il risultato fu che più di duemila civili furono uccisi e travestiti con divise delle FARC, in un caso che fu chiamato dei “falsos positivos”. Naturalmente il Governo Uribe, il cui ministro della Difesa allora era proprio Juan Manuel Santos, si dichiarò ignaro di tutto.

Santos è conosciuto per essere un abile giocatore di poker e sia da ministro che da presidente si è spesso trovato a capo delle più astutamente pianificate operazioni nei confronti di membri di spicco della guerriglia. Nel 2008, da ministro della Difesa autorizzò un raid per l’eliminazione del secondo in comando delle FARC, Raul Reyes. Durante gli scontri i guerriglieri fuggirono in Ecuador, poco oltre il confine, ma l’aviazione colombiana attaccò comunque il loro campo durante la notte uccidendo anche dei civili. I corpi dei guerriglieri furono trovati in pigiama e più che di raid si parlò di massacro. Peraltro, la Colombia aveva di fatto attaccato il territorio ecuadoregno e ne nacque una crisi diplomatica tra i due Paesi. Un altro obiettivo di Santos fu Jorge Bicerio alias “Jojoy”, uno dei capi più spietati che la guerriglia abbia mai avuto. L’intelligence colombiana venne a sapere che Jojoy soffriva di piedi gonfi per via del diabete e che aveva ordinato degli stivali più larghi. L’intelligence riuscì a inserire nei nuovi stivali un microchip fornito dagli Stati Uniti che servì a localizzare il campo dove viveva Jojoy, che poco dopo fu bombardato.

Qualche anno fa, quando era già Presidente, Santos ha raccontato che un giorno uno dei suoi generali gli telefonò per comunicargli che Alfonso Cano, l’allora leader delle FARC, era stato circondato, e chiedeva il permesso di procedere. Santos stava per avviare le trattative di pace con le FARC e non voleva farle saltare, ma in quel momento ha pensato che se i guerriglieri avevano accettato di trattare allora probabilmente erano ai ferri corti. Santos disse di procedere con l’eliminazione di Cano, le trattative andarono avanti ed ebbe ragione. Con la morte di Reyes, Jojoy e Cano è venuta meno l’ala militare delle FARC ed è emersa quella politica, che ha portato alle trattative per cessare le ostilità.

Molti danno a Santos il merito di aver fortemente voluto la pace e di averla ottenuta, fermando l’escalation di barbarie che è stato il minimo comun denominatore della storia colombiana degli ultimi cinquant’anni, tanto che per i colombiani si è parlato di “assuefazione alla violenza”. Tuttavia, in una prospettiva in cui nessuno ha le mani pulite e in cui anche chi governa un Paese è responsabile delle più efferate azioni, in cui nella disperata ricerca di un leader persino il fantasma di Pablo Escobar riappare dal passato per campeggiare sugli adesivi per auto o sulle magliette vendute ai turisti per cavalcare l’onda di qualche serie TV di successo, la Colombia è oggi un Paese che ha estremamente bisogno di guide. In quest’ottica, il “Basta alla violenza” esclamato da Papa Francesco in piazza a Bogotà lo scorso settembre, è per i colombiani un messaggio semplice ma non banale.

Non si spaventi il turista: è possibile viaggiare in Colombia senza essere turbati da alcuna di queste questioni. La Colombia è uno splendido Paese da visitare e tutte le informazioni da dépliant da agenzia turistica sono vere. La sua caratteristica principale è la varietà microclimatica, che lo rende uno dei Paesi con la più grande biodiversità al mondo. La varietà dei climi si converte in varietà di paesaggi: la cordigliera delle Ande che attraversa il cuore del Paese ospita Bogotà con i suoi 500 musei, cedendo il passo da una parte e dall’altra ai climi inospitali della Foresta Amazzonica e a quelli rilassati della costa caraibica. Da quelle parti pure un deserto, e a Punta Gallinas, il punto più a nord del Sudamerica, è possibile vedere le dune di sabbia gettarsi nell’Oceano.

La frammentazione climatica della Colombia è singolarmente riflettuta anche dalla sua frammentazione etnica. Se noi siamo abituati a pensare i colombiani come un miscuglio tra colonizzatori spagnoli ed indios, rimaniamo sorpresi realizzando che in Colombia sono presenti più di trenta gruppi etnici. Proprio vicino a Punta Gallinas ho l’occasione di incontrarne uno. Per arrivare a Punta Gallinas dalla città più vicina ci vogliono cinque ore di fuoristrada in mezzo al deserto. Prima di partire, il nostro autista ci dice che dobbiamo fermarci a comprare una cosa fondamentale per il viaggio.

Quando vedo che quel qualcosa è un pacco di dolcetti, non capisco cosa stia succedendo. Più tardi scopro che il percorso che dobbiamo affrontare è disseminato di Wayù, che al passaggio dei mezzi dei turisti tirano delle corde da un capo all’altro della strada per fermarli. È permesso passare solo dando qualcosa in cambio. A chiedere questo pedaggio improvvisato sono vecchiette o piccolissimi bambini più bassi della ruota del nostro fuoristrada. In un posto dove lo Stato non può arrivare, a cinque ore di macchina dalla civiltà e possedendo solo quattro pali e due tavole di legno che a stento si possono chiamare baracche, viene da chiedersi di cosa vivano, e diventa chiaro che un viaggio in Colombia è un’altra occasione per mettere gli occhi sulla miseria.

Firmata la pace, viene adesso da chiedersi cosa verrà fatto circa le questioni irrisolte che hanno spinto i guerriglieri a imbracciare le armi. Per Santos sono gli ultimi mesi di governo e quest’estate ci saranno le elezioni con la partecipazione del partito delle FARC, fortemente voluta dal Presidente. La denuncia dell’uccisione di 36 ex guerriglieri avvenuta qualche settimana fa e la promessa del leader della coalizione di centrodestra – di cui fa parte anche l’ex presidente Alvaro Uribe – di rivedere significativamente gli accordi di Pace, fa temere il ritorno nel baratro. Nel frattempo, il malcontento delle centinaia di migliaia di contadini che vivono ancora di stenti e hanno come vicini di casa narcotrafficanti miliardari, rischia di ingrossare le file dell’ELN (Ejército de Liberación Nacional), l’ultima forza di guerriglia attiva nel Paese.

La Colombia si è sempre mascherata dietro a governi democraticamente eletti ed è stata a lungo amministrata da partiti liberisti di centrodestra. Un pesce fuor d’acqua tra i confinanti Venezuela ed Ecuador e la dirimpettaia Cuba, che hanno conosciuto il socialismo. L’ampia forbice sociale è sempre stata una caratteristica della società colombiana: ricchi molto ricchi e poveri molto poveri. Ancora oggi più del 50% delle terre sono in mano a meno dell’1% della popolazione e la riforma agraria voluta dai guerriglieri negli accordi di Pace non è ancora arrivata. Vicino a San Agustìn, dove è possibile visitare i resti di una civiltà precolombiana che conosceva la matematica e l’astronomia e che è misteriosamente scomparsa prima dell’arrivo degli europei, visitiamo le coltivazioni di canna da zucchero. I lavoratori ci dicono che lavorano dalle due di mattina fino alle dieci di sera perché non esistono sindacati, che sono previsti per gli operai nelle città ma non per i campesinos. In qualunque città colombiana è possibile veder sfilare macchine di lusso e lasciare spazio a qualcuno che muore di fame sul marciapiede di dietro.

Per strada tutti hanno uno smartphone, ma le condizioni igienico-sanitarie sono precarie. Negli ostelli non manca mai la TV a schermo piatto, ma spesso manca l’acqua. Libero mercato o distribuire poco a tutti: lontana dalla nostra Europa delle linee politiche sempre più sbiadite, in America Latina si tratta ancora di comunismo o capitalismo. È questa la scelta per cui in Colombia sono stati versati cinquant’anni di sangue.

Quando era in Bolivia, dove avrebbe trovato la morte, a Ernesto “Che” Guevara capitò di guarire un figlio di contadini da un’infezione all’occhio. La madre gli chiese come mai lui e i suoi soldati stessero portando avanti una guerriglia in quel Paese, visto che non era il loro e che erano considerati alla stregua di invasori stranieri. A quella madre, Che Guevara rispose: “Combattiamo per eliminare lo stato di cose per cui tuo figlio è qui che muore di fame, mentre a La Paz c’è chi naviga nell’oro”. Dall’eliminare questo stato di cose, la Colombia è molto, molto lontana. E la rivoluzione è anche già finita.

Matteo Busato, Treviso 17/02/2018
Foto dello stesso autore: "Canna da zucchero lavorata nei pressi di San Agustìn".

 

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